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Notizie » Introduzione a Tempo d’opera

Proposta di lettura [Libri] 09/07/2022 12:00:00

Proponiamo l’Introduzione di Roberto Deidier alle poesie di Alberto Toni (1954-2019):

In un pomeriggio del 1988 (l’estate si era conclusa da poco, ma il caldo non cessava) entrai nella vecchia Feltrinelli di via del Babuino, libreria piuttosto accogliente verso la poesia, anche quella dei piccoli editori. All’uscita avevo con me due volumi, uno considerato già un classico, l’altro dal titolo che segnava l’avvio di un percorso certo. Si trattava di “Ora serrata retinae”, con l’inconfondibile copertina gialla della collana curata da Valerio Riva, e di “Partenza”, nell’elegante confezione editoriale di Empirìa, che richiamava un sano artigianato tipografico. Sulla copertina grigia, che mi fece pensare alle “Occasioni” di Montale nella prima edizione degli anni Trenta, c’era una finestra socchiusa, che dava un’impressione di penombra. La poesia romana degli anni Ottanta mi veniva così incontro attraverso i suoi autori: li rivedo in una fotografia, Valerio Magrelli con gli inconfondibili baffi dietro cui camuffò a lungo i suoi vent’anni, e accanto a lui Alberto Toni, di tre anni più grande ma che sembra il più giovane tra i due, in una tenuta ancora adolescenziale e lo sguardo smarrito dietro i grandi occhiali, mentre il sorriso accennato di Valerio ostenta una sicurezza sorniona malcelata dalla timidezza.
Se ricordo bene, quella foto era stata scattata da Dino Ignani tre anni prima, durante le serate di letture poetiche all’Orto botanico, sotto il Gianicolo. Le avevo mancate, a malincuore, per ragioni di studio. Era dunque il momento di iniziare a leggere, ciò che significava avventurarsi nelle varie librerie del centro nella speranza di imbattersi nei titoli di cui già si parlava. “Partenza” fu il primo e il solo libro di Alberto che acquistai. Riaprendolo, ritrovo due righe a penna: «una dedica “storica” per l’amico Roberto». Certo, erano trascorsi dieci anni, la data è il 28 gennaio del ’98 ed erano stati anni di un’amicizia intensa, votata al colloquio. Non saprei più dire come cominciò, non ho immagini precise di come e quando ci incontrammo. Sicuramente in qualche casa di amici, forse di Aldo Rosselli, il cugino di Amelia, alla quale consegnai i miei primi versi e che rimase per Alberto un punto di riferimento costante. Aldo poi aveva firmato la prefazione a “Partenza”. Oppure avvenne durante una presentazione, o in uno dei tanti eventi che animavano la vita letteraria romana alla fine di quello strano decennio. Se la memoria è confusa è solo perché la presenza di Alberto, nella mia vita, è stata al contrario una certezza. Quando il dialogo si infittisce e diviene una sorta di appuntamento irrinunciabile, il nostro interlocutore si assimila al nostro tempo interiore, vi appartiene a pieno titolo. Così è accaduto, negli anni della nostra amicizia, di pensarlo come un’immagine di sempre. Glielo chiesi, una volta, e anche lui brancolò verso quel periodo ormai distante: ma dove ci eravamo conosciuti?
Gli altri, numerosi libri di Alberto che sarebbero seguiti, mi furono tutti donati. Di molti avrei scritto o li avrei presentati. Lui fece lo stesso, mai mancando alle mie più sparute apparizioni. Non era un gioco delle parti, e neppure un commercio di favori: entrambi siamo rimasti, per scelta, estranei ai poteri dell’editoria e del giornalismo. Inseguivamo quella specie di rigore che ben si accompagna a caratteri schivi. Certe mie intransigenze si spiegavano con la gioventù, ma guardavo a lui che a dispetto della maggiore età (era davvero il fratello più grande) le conservava. La sicurezza dei suoi giudizi derivava da un credo profondo, che se non somigliava a una religione della poesia le andava però vicino, ma in Alberto non vi era alcuna visione sacerdotale, ciò che presuppone una ritualità precisa, anche relazionale; la poesia è stata, più semplicemente e più nel concreto, la sua vita. Anche l’attenzione per gli altri veniva da questo. Quello scrivere e parlare in pubblico, reciprocamente, del nostro lavoro, era piuttosto l’estenuarsi, fuori di noi, delle nostre telefonate. Era lo scatto di una fotografia che chiunque avrebbe potuto guardare.
Quei volumi sono adesso negli scaffali di una casa che Alberto non ha fatto a tempo a vedere. Li ritrovo, tutti insieme, libri e plaquettes, edizioni d’arte a tiratura limitata, con le dediche immancabili e i miei appunti di lettura, le sottolineature e le chiose, o i fogli con la scaletta degli argomenti quando mi preparavo a presentarli in pubblico. Vi si aggiunge questo “Tempo d’opera”, adesso, il primo senza dedica. Dopo il mio trasferimento in Sicilia, per via dell’insegnamento, e nonostante i miei continui ritorni, i nostri rapporti si erano diradati, quanto a frequenza, ma non erano diminuiti nella loro intensità. Continuavamo a telefonarci come sempre, soprattutto nell’occasione di qualche apparizione editoriale che meritava di essere commentata e discussa. Poi, un giorno, si decise di venire a trovarmi, con sua moglie Patrizia. Lo fece nonostante la fatica nel camminare; avventurarsi sulle basole di Palermo quando la gamba non ne vuole sapere è un vero supplizio, a cui volle sottoporsi pur di passare qualche giorno insieme. Se a monte c’era anche il bisogno di allontanarsi un po’ dalle claustrofobie romane, con quel viaggio Alberto intese riaffermare l’amicizia che ci legava ormai da più di un ventennio. Fu un atto di presenza, un segno di continuità. Ma prima della persona c’era stata, per l’appunto, la poesia.
Qualcosa di “Partenza” influì sul nostro rapporto. Forse la dose di candore, nel senso di una spaesata sorpresa del mondo, un ostinato aprirne le porte (con il pensiero all’amato Penna: «Le porte del mondo non sanno…»). Quei versi non solo mi convinsero, ma lavorarono in me affinché l’incontro non tardasse a tramutarsi in amicizia. Del resto, di poesia e di carne sono fatti i poeti. Quella di Alberto fu segnata precocemente dal manifestarsi della malattia, ma lui, mal sopportando determinismi biologici e quindi biografici, optò per un’altra specie di consapevolezza. Non parlammo mai dell’ipoteca che il suo corpo gli aveva imposto, della scadenza temibile che poteva attenderlo da un istante all’altro. La sua vita, tutto sommato, è stata un’opera di resistenza e di dérèglement; anche se un senso di sospensione e di precarietà si lascia avvertire nelle sue poesie, poiché non sarebbe mai riuscito a mentirsi, la sua attenzione fu rivolta altrove. Certo, il corpo richiese cure e premure, ma il fuoco della sua esistenza rimase la letteratura. Non la adoperò, non la piegò a facili esorcismi per ingannare il tempo residuo e neppure per interrogarlo; non era interessato agli oracoli, da qualsiasi fonte provenissero. Fece piuttosto della poesia una ragione, la ragione non di un sopravvivere, ma di un interrogarsi ugualmente drammatico e profondo. Con un atto di forza, aveva chiuso il «corpo sconfitto» nel silenzio, così scriveva in “Partenza”, restando però «Giorno dopo giorno, / di guardia». La poesia e le sue domande, un tutt’uno. “Non c’è corpo perfetto”, l’ultima raccolta che riuscimmo a festeggiare, al suo compleanno, tratta soprattutto di questo.
Al momento della nostra conoscenza Alberto era solo, e questa condizione poteva apparire, in superficie, come la scelta conseguente a una vocazione. Sarebbe altrettanto facile smentirlo pensando che, proprio in virtù della brevità che lo attendeva, per converso avrebbe amato di più la vita. No, l’amava comunque e indipendentemente dalle avvisaglie della carne. Era materia, non astrazione, una materia da portare sulla pagina, al punto che rileggendo le sue poesie, e nel raccogliere qui quelle che ci ha lasciato, non saprei più avvertire un discrimine, un confine. Mi accade lo stesso quando torno sui libri di Giovanna Sicari, amica e compagna, per entrambi, di un incessante addestrarsi alla poesia. Neppure l’arrivo di Patrizia nei suoi giorni segnò quel discrimine: fu naturale farne una musa, assimilarla alla scrittura. Insieme avrebbero attraversato i classici, Dante. Lei divenne consustanziale al suo mondo lirico.
C’era però, talvolta, nei nostri colloqui, il pensiero della finitudine. Senza mai accennare a nulla di specifico, e senza mai indulgere al tragico, ma sempre sorridendo, in qualche occasione mi chiese di occuparmi di lui, dei suoi libri. Non pronunciava mai le parole scontate, le frasi fatte: non disse mai della morte, o del dopo. Non c’era bisogno, tra noi, di considerare lasciti o eredità letterarie. Anche io mi limitavo a ironizzare, magari con un semplice sorriso d’intesa, con un assenso dello sguardo. Era un “fait accompli” e non c’era altro da aggiungere. La confidenza non ammetteva deroghe a quella sobrietà a cui ci eravamo abituati l’un l’altro. Ma è tempo di parlare di questo libro.
Come non ha portato Alberto a indulgere con sé stesso, così la precarietà del corpo non lo ha indotto, di libro in libro, a comportarsi come se quello che stava congedando fosse l’ultimo. Non ha mai pubblicato una raccolta che rispecchiasse un presentimento, un’angoscia della fine. Il dolore, che pure doveva esserci, è rimasto filtrato dai versi, si è celato dietro altre possibili significazioni, fino a quando, con una variazione più espressiva che tematica, non ha trovato una sua strada per emergere. La scrittura si è contratta, è implosa; l’argine si è ritirato. “Vivo così”, “Il dolore”, “Non c’è corpo perfetto” costituiscono in questo senso una trilogia; preparano, forse annunciano “Tempo d’opera”, libro estremo, davvero conclusivo. Eppure qui ci imbattiamo in un paradosso: perché, a ben vedere, in questi versi si ritrova l’intero percorso di Alberto Toni nella poesia. Nella prossimità del congedo, Alberto ha lavorato come chiudendo il cerchio della sua vita letteraria; vi ha accolto tutto quanto gli era rimasto da dire, rivolto al passato. Non per ritrovarvi macerie, ma semi. Il futuro, semplicemente, gli si negava. Allora l’esercizio del rigore si è esteso come una funzione totalizzante, come la vera costante tra alfa e omega. “Tempo d’opera” è, insieme, viatico e testamento. È un testo che si costruisce assecondando marcatori precisi, annullando le costrizioni della finitudine. Vuole dirci, infine, che il tempo dell’opera non può concludersi. È un inganno barocco, un’anamorfosi: vi sono, al contrario, fin troppe scarpe in cammino lungo queste poesie. E vi è l’espansione di un universo linguistico altro, a cui Alberto ha in precedenza accennato e a cui guardava con assoluto interesse: quello dell’arte. L’arte come percorso non solo di visione orizzontale, di creazione di uno spazio fenomenologico tra opera e osservatore, ma anche di percezione e interiorizzazione verticale, su base analogica. Così possiamo trascorrere, à rebours, da Bonalumi alla scuola romana di Schifano e Festa, fino a un desiderio che si apre «in alto // alla Chagall», ritrovando nell’arte un secondo linguaggio, parallelo secondo la lezione dei maestri («ut pictura…», ma queste poesie mettono in campo anche Giacometti, abbracciando così tutto un secolo votato all’impoetico e riscattandolo di bellezza romantica, quella di Keats).
Quando penso ad Alberto è sempre un pensiero allegro. Sapevamo di essere parte di un gioco ben più grande di noi, non la vita, dico, ma la prassi della letteratura, la sua ricezione. C’erano spesso le doléances, ma mi chiedo come avrebbe potuto essere altrimenti. Il mondo dei maestri era alle spalle, ormai, e noi lo guardavamo nella cristallina distanza degli affetti, nel significato che volle dare a questi Leopardi: qualcosa che ci apparteneva nel profondo, che era parte della nostra identità e della nostra privata mitografia. Una recensione che tardava, un riconoscimento mancato erano per lui un dispiacere, un’ingiustizia, ma questo è un aspetto che nulla sottrae, quanto a coerenza, al ritratto di lui che mi si profila e da cui fatico ad allontanarmi; perché Alberto, con la sua presenza e la sua esperienza, ha garantito la giovinezza di entrambi. Può vivere – e scrivere – un poeta se pensa di invecchiare? Non era già accaduto a Penna di pagare quello scotto?
Al suo funerale non c’ero. Un traghetto mi portava verso Palermo, a riprendere il mio lavoro. Dirgli addio, questo non sarei riuscito a farlo; avrebbe significato dire addio anche a me stesso, per quella parte di vita e di cammino condivisi e che ancora, almeno nella memoria, ci fa vivi.

Roberto Deidier


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