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Notizie » Gea Dazzi su “Le rovinose”

Presentazione [Libri] 18/01/2022 12:00:00

Proponiamo qui l’intervento di Gea Dazzi, che ringraziamo, in occasione della RASSEGNA CIVICO 1, ANIMOSI CAFFÈ, tenutasi a Carrara il 07/10/2021, dal titolo: «Caratteri testuali e narrativi di “Le rovinose” di Concetta D’Angeli» 📝👇👀

Scrivere un romanzo significa prima di tutto raccontarlo, stabilire un rapporto tra la voce narrante e il lettore. Questo rapporto può essere più o meno interattivo in virtù del livello di partecipazione che si chiede al lettore stesso. Ebbene in “Le rovinose” di Concetta D’Angeli il lettore è chiamato dentro al gioco narrativo fino al collo e deve tenersi pronto, come in una partita a scacchi, a fare la sua mossa, affinché il gioco prenda forma e risulti avvincente. E la D’Angeli ama giocare su una scacchiera mai scontata. Non è scontato il linguaggio che si piega all’animo dei protagonisti e li caratterizza, li plasma. Enfatico e grandioso per Lorenzo, anche quando usa consapevolmente e con “la puzza al naso” il dialetto senese e lo mescola alle citazioni dotte, ai rimandi alla filosofia, alla cultura politica); spontaneo, irriverente e seducente (“la voce greve da contadina” p.27) per Clara, che esprime ancor più il proprio essere nel non verbale ( si veda p.13: il suo incedere ancheggiante - Clara ondeggia-, le sue risate, il suo gesticolare- il movimento ininterrotto delle mani che non fanno altro che distribuire carezze-); trattenuto, ambiguo, sospeso e sofferto per Silvana che non ride mai, non vola, non si eleva, non si immerge. Resta e resiste anche con le parole. Ma non c’è solo il linguaggio dei personaggi, c’è anche quello della scrittrice Concetta D’Angeli che inventa, ruba parole antiche e desuete, mescola meridionalismi e toscanismi, conia verbi che parlano (come “riagallano” di p.27, o il poetico “raggiava” di p.64).
Gioca con le parole e con il suo lettore per distrarlo, incantarlo, stupirlo.
E come il linguaggio muove il gioco, così il ritmo che segue le scene: incalzante nei numerosi asindeti (frequente la triade aggettivale o nominale come a p.123 “rose gardenie gelsomini”), o rotto da pause inattese, punti forti, spazi bianchi, bruschi colpi di scena. Ma anche il registro che si confà ai personaggi: alto, basso, gergale, dialettale, proverbiale. Non meno scontato è poi il passaggio dalla terza persona- con cui entra in scena, nel tempo presente della storia, nome e cognome, Silvana Guerrini- alla prima persona, la stessa della terza, l’io restituito dalla memoria di Silvana, prima nel pensiero di un NOI (p.8), poi nel flashback del ricordo: l’IO (Silvana) e il LEI (Clara) di p.18 “Io ero una studentessa modello…”. Il lettore diventa da subito complice di questo gioco. Lui stesso entra in un’altra stanza, quella della memoria di Silvana, del suo tempo interiore e in quello dei suoi compagni, ma anche nel tempo esteriore dei fatti storici, quelli degli anni di piombo che offrono una sovra-scenografia, una cornice in cui orientarsi (in questo senso simile allo sfondo resistenziale che si innesca sulla vicenda personale di Milton in Una questione privata di Fenoglio). Ma il focus è sempre chiaro e il lettore non si perde mai. Qui interviene l’abilità della scrittrice che lo guida dentro alle singole scene con precisi riferimenti da copione. Sappiamo esattamente dove siamo, dove sono i personaggi. Il lettore è messo in ogni caso a proprio agio, come quando nel capitolo 5 la scrittrice irrompe sulla scena nella voce del narratore onnisciente e con una sapiente pausa metanarrativa ci fa scoprire di Lorenzo risvolti familiari che solo lei può conoscere. Avrebbe forse potuto tirarli fuori anche senza interruzioni, nel fluire del racconto. Ma abbiamo già detto che la scacchiera non è scontata e nemmeno monotona. La voce narrante intradiegetica nella persona di Silvana non dà infatti una prospettiva univoca sulle vicende raccontate: Clara, protagonista insieme a Lorenzo e quanto Silvana del romanzo, offre attraverso le lettere che fa recapitare a Silva, come amichevolmente la chiama, ma anche attraverso il suo diario (cap.11), il suo punto di vista su se stessa, racconta “il suo Lorenzo” e anche “la sua Silvana”. Per nulla secondarie sono poi le focalizzazioni dei personaggi minori, cui l’autrice affida riflessioni e rivelazioni preziose e direi centrali nel romanzo: si pensi al discorso di Dorina, compagna di lotta di Lorenzo, sulla violenza, sul terrore che si trasforma in passione (p.79); o alle storie della tata Cesira sul passato di Clara, le sue parole tenere e commosse, il suo alito materno, forse l’unico amore di cui Clara avrebbe avuto bisogno per salvarsi (p.95); o al discorso di Filumene del cap.12, Filomena Saponaro, la vox populi, che, come le ancelle nei cori delle tragedie greche, svela la verità e ci dà la sua visione realistica e disincantata del mondo di Clara e Lorenzo alla masseria. Il mondo prigione e mattatoio in cui si consuma l’epilogo (ben esemplificato dalla metafora dei cani o dalla pazzia delle gemelle). E la partita si chiude, proprio come nelle tragedie greche su un sipario di morte e rovina. La rovina quasi catartica e di certo prolettica, inevitabile e anticipata al lettore-complice sin dal titolo del romanzo. Senza sangue e già ricomposta. Gli eroi dell’assoluto, la Bellezza-Clara e l’Ideale-Lorenzo sono stati sopraffatti dal furor delle loro stesse vite, che li ha resi tanto forti quanto fragili, vittime e carnefici al tempo stesso. Resta a testimoniarlo l’irrisolta Silvana, nascosta alla vita, furtiva e incapace di furore. L’anti-Esterina della poesia Falsetto di Montale. E se Clara è aria, acqua, luce, angelo che ammalia e ammanta (descritta talora con echi di fascinazione stilnovista), Silvana è “della razza di chi rimane a terra”.
Due rovinose, per due diverse rovine.

Grazie Concetta D’Angeli, per averci raccontato la vita, con i suoi sogni e i suoi mostri.


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