Margherita Pascucci, filosofa. A breve, il 3 giugno 2021, pubblicheremo il tuo “Il tempo tessuto di Dio. Ritratto filosofico immaginario di Dacia Maraini in vari atti”. Leggiamo nella tua biografia che hai lavorato e vissuto in vari paesi del mondo, qual è il “posto” occupato oggi dalla filosofia nel nostro paese?
Vorrei che avesse un posto più importante, e, soprattutto, una sua modalità più concreta e capillare. Gilles Deleuze e Félix Guattari scrivevano che la filosofia è la creazione di pensiero nuovo. Vorrei vedere questa ‘creazione di pensiero nuovo’ al lavoro, che fosse presente nelle scuole, nei luoghi più disagiati, nella cultura comune. Che si spogliasse della sua astrazione e disturbasse il pensiero e la prassi corrente, che potesse intervenire nella costruzione della società come ha fatto in tante altre epoche della storia dell’umanità. Che riuscisse a essere ponte, là dove si dà l’infranto, il frammentato; a riparare, con la sua forza, il dolore che infligge la violenza; a scontrarsi con il potere e a farlo diventare potenza; a essere strumento di denuncia di ogni disuguaglianza e di ricerca di forme radicalmente nuove di produzione di ricchezza per tutti; infine che diventasse la voce dell’umanità come bene comune.
“Il tempo tessuto di Dio”, sottotitolo: “Ritratto filosofico immaginario di Dacia Maraini in vari atti”, possiamo definirlo un saggio narrativo, perché hai scritto questo libro? A chi è destinato?
Ci sono due risposte. La prima riguarda l’antefatto, ed è personale. La seconda riguarda il testo in sé.
L’antefatto, in breve, è questo: da anni pubblico testi di filosofia, che è la mia professione. Ma scrivo anche, da sempre, testi di scrittura libera. Non saprei nominarli: talvolta sono poesie, talvolta prosa breve. Mai romanzi. Nel tempo questa scrittura libera e frammentata, che è sempre rimasta non pubblicata e abbandonata in mille quadernetti, è diventata sempre più presente. Questo ha corrisposto a un disagio che è cresciuto negli ultimi anni nella mia scrittura filosofica: disagio per la sua concettualizzazione così astratta, che sembra avulsa dal reale, e dura, con un certo grado di incomprensibilità. Quindi da una parte, scrittura libera senza una struttura; dall’altra una struttura rigida, senza, apparentemente, libertà. Tornata in Italia dopo tanti anni all’estero, ho incontrato, tardi, la scrittura di Dacia Maraini. E insieme alla sua scrittura, mi è capitato di ascoltarla molte volte alla radio e in televisione. Mi ha subito colpito una forza semplice, e tanto limpida quanto penetrante, del suo modo di pensare. Ed è sorto il desiderio di andare a conoscerla [la continuazione dell’antefatto prosegue nella risposta alla domanda seguente].
Il testo in sé, invece. Per variegate ragioni, quello che inizialmente era un desiderio (andare a conoscere la scrittrice che era riuscita a rendere il pensiero un sentire), è diventato un libro su quella scrittrice.
Perché ho scritto questo saggio narrativo? Forse per provare a unire le due forme espressive che mi appartengono di più, la filosofia e la letteratura, cercando, in un esperimento, di farle fluire l’una nell’altra.
Per chi ho scritto il libro? Per la verità l’ho scritto per Dacia Maraini.
O meglio, nella sua prima stesura era scritto per lei. Poi è diventato altro. Quindi, spero, anche se so che non è una lettura semplice, che possa essere per tutti coloro che hanno incontrato la sua scrittura.
Borges scrisse: “Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia”, tu a cosa devi la scoperta di Maraini? E come si è consolidata questa passione?
La devo a Chiara d’Assisi. E alla mancanza di maternità.
Il mio specchio e la mia enciclopedia sono stati la mancanza della maternità e il privilegium paupertatis di Chiara.
I primi mesi in cui sono tornata in Italia mi capitava di vedere spesso Maraini in televisione o di ascoltarla alla radio. Incuriosita da questo pensiero così diretto e limpido, ho iniziato a leggere qualche suo libro – a quel tempo avevo letto soltanto Marianna Ucrìa – e il secondo, o forse il terzo libro che ho letto, è stato Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza. Anni fa ho scritto un testo sulla povertà, in cui era fondante la rivoluzione indicata da Chiara nel suo privilegium paupertatis (il diritto a non possedere che lei chiese a Innocenzo III, e che ottenne nel 1216). Più procedevo nella lettura della Chiara di Maraini, più mi colpiva il modo in cui lei fosse riuscita a dire in modo lirico e forte al tempo stesso, comprensibile da tutti, questa potente rivoluzione che Chiara chiese. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, ho letto quindi (quasi) tutto quello che Maraini ha scritto, avendo una predilezione per i suoi testi di teatro (mi stupisco di come in Italia questi non siano portati in scena continuamente. Ho visto questa estate al Teatro sull’Acqua ad Arona, magnifico Festival di cui Maraini ha la direzione artistica, due pièces di Maraini, l’onirico Un tagliatore di teste sul lago Maggiore con la regia di Francesco Tavassi e Camille Claudel, interpretato da una mozzafiato Mariangela d’Abbraccio, e mi sono vieppiù chiesta come mai non fossero in cartellone ovunque in Italia).
Più leggevo più desideravo conoscere questa autrice che era riuscita a mettere insieme una scrittura altissima a un raffinatissimo, setacciato, depositato eppure immediato e limpido profondo pensiero. Come se il pensiero trovasse, nella scrittura di Maraini, una sua carnalità cruda, e vera. Ne sono rimasta affascinata. Un giorno di maggio dell’anno scorso vidi che Maraini presentava a Firenze Corpo felice, testo sulla maternità. Andai ad ascoltarla. E la mia stima fu confermata dalle sue prime parole (‘Non credo al genere’). Alla fine non ho avuto il coraggio di andare a chiederle un autografo. Pioveva, e sono rimasta ad aspettare che spiovesse nell’androne del palazzo dove era avvenuta la presentazione. Lì ho visto Maraini salutare una donna e entrare in un tassì. Mi sono avvicinata a questa donna, le ho chiesto se conosceva Maraini, ci siamo messe a parlare. Alla fine della chiacchierata è stata così gentile da darmi il contatto di Maraini.
Un mese dopo Maraini tornò a Firenze e in un giorno fece due presentazioni: una su Pinocchio nel pomeriggio tardo di inizio estate, in una bella piccola libreria nel centro di Firenze. E una su ‘Scrivere come impegno sociale’ quella stessa sera, dopo cena, in una libreria nella periferia di Firenze. Durante il primo incontro rimasi stupefatta da come Maraini parlava del tempo, della immaginazione, e della creazione (parlando di Pinocchio!). Mi ricordo che andai da sola in periferia per aspettare l’altro evento, trovando aperta soltanto un’anonima panineria da studenti. Mentre ero lì tra l’odore di patatine fritte, hamburger, tovaglie di carta a quadratini rossi e bianchi, mi balenò un’idea, o meglio, un desiderio come un balenio, prese forma. L’idea/desiderio era: come sarebbe bello scrivere un dialogo con lei su Dio. Sono laica, credo al Dio di Spinoza, ossia alla natura, ma provavo una così forte vicinanza alla creaturalità che sentivo in questa donna, nel suo modo di narrare, di esprimersi, che questa idea mi sembrò naturale, come se fosse già una cosa comune, che dovevo comunicarle.
Annotai sulla tovaglietta a quadratini bianchi e rossi le prime battute di questo dialogo immaginario.
Nei mesi successivi iniziai a scriverle, e Maraini gentilmente mi rispose. Capii che non potevo chiederle di scrivere qualcosa a quattro mani su Dio – in quel posto anonimo di Novoli la mia immaginazione aveva evidentemente corso troppo. Però ero attratta, o forse trasportata, da due motivi, o movimenti interiori: far venire alla luce quella trama filosofica che sentivo nei suoi testi, nei suoi discorsi, e conoscerla. In un certo senso speravo di poter, in modo silenzioso, umbratile, conoscendola, imparare a liberare la scrittura filosofica, o forse, strutturare quella libera. Desideravo imparare quello spogliarsi dell’io che mi sembrava essere la forza della sua scrittura e ciò che dava, magistralmente, carnalità al suo pensiero. Una carnalità particolare a un pensiero, un sentire, universali.
Abbiamo continuato a corrispondere per qualche tempo, e io, a un certo punto, le ho timidamente proposto il mio progetto di provare a farle un ritratto filosofico.
Lei mi disse sì, e mi riempì di gioia questa grande generosità. Rimanevo pur sempre una sconosciuta. Poi, e qui purtroppo intervenne il mio modo forse un po’ astratto di comunicare, dopo l’estate, quando iniziai concretamente a condividere quella che pensavo potesse essere la ‘tela’ del ritratto – cioè il quadro narrativo entro cui inserirlo –, capii dalla sua risposta che si era data un’incomprensione. Io avevo sempre pensato di fare un saggio che piano piano diventasse narrazione, ma questo avrebbe implicato una scrittura a quattro mani e questo non poteva darsi. Allora, dopo qualche momento di crisi, decisi di cambiare natura del testo ma di scriverlo lo stesso. Erica Gardenti, la donna che avevo incontrato nell’androne di Palazzo Pucci e mi aveva generosamente fornito il contatto di Maraini, presentandomela virtualmente, già da tempo mi aveva suggerito di fare un testo filosofico su di lei. Io non volevo farlo, perché non mi interessava uno studio classico dei testi di Maraini, volevo fare vedere come dai suoi testi sgorghino – possano sgorgare – del pensiero e del sentire nuovi, e volevo farlo in pratica, nella scrittura stessa. Che fuoriuscisse dal testo nel suo farsi, non da me.
La mia idea era di essere soltanto una cartina di tornasole, uno strumento invisibile che, interagendo con Maraini, facesse venire fuori questo suo pensiero come una narrazione.
Ma non volevo che fosse una intervista, perché ce ne sono già diverse, molto belle, né tantomeno un saggio di critica letteraria o filosofica. Volevo creare proprio quell’interazione chimica che ci porta sull’orlo della creazione di qualcosa di nuovo. Interazione profonda e impercettibile che è ciò che i testi di Maraini hanno fatto su di me. Qualcosa non ha funzionato, come talvolta nelle prime prove degli esperimenti.
Ma la mia passione per la sua scrittura, il suo modo di pensare e trascrivere questo pensiero, dargli vita, ha continuato a lavorare in me come una talpa – cieca, costante, testarda. Ho deciso di fare il testo lo stesso, facendo fare la parte del dialogo alle parole dei suoi personaggi, dei suoi libri. Ma a quel punto non poteva che essere un ritratto immaginario, un dialogo immaginario. Con tutte le mancanze e gli errori dell’immaginazione (trovate tutte le discettazioni su questo nel libro stesso…). Ed è venuto fuori Il tempo tessuto di Dio.
Sono profondamente grata a Maraini per avermi permesso di immaginarla, anche se a tratti mi sento a disagio per aver reso l’immaginazione qualcosa di espresso. Certo, è la grande forza che ha lei. Dà realtà all’immaginario, all’immaginazione. Solo che il personaggio che viene fuori non è più Dacia Maraini, il suo pensiero, ma una Dacia immaginata da me, la figurazione nel pensiero che un lettore – in questo caso io – si fa di lei. È soltanto un’interpretazione, che offre delle tracce.
In un certo senso è lo scherzo che la mia immaginazione mi ha fatto. Volevo conoscere Dacia Maraini e parlare con lei di filosofia, sentirla parlare del suo pensiero, e mi sono ritrovata a fare a pugni con il mio immaginare il suo pensiero. Con un personaggio, non con la persona in carne ed ossa. Una volta ripresami dallo scherzo che la mia immaginazione mi ha fatto, cercando di scusarmi per ciò che la fantasia può aver scaturito, ho accettato la verità della letteratura. Che è diversa da quella della filosofia. C’è una autonomia, una libertà dei personaggi che non vogliono essere scambiati con qualcos’altro. Devono diventare dall’interno ciò che sono. Non si sa, effettivamente, come e quando arrivano, cosa saranno.
Maraini dice spesso che i suoi personaggi le bussano alla porta. Ecco, per me è come se il suo personaggio, il personaggio Dacia, o forse il personaggio scrittrice di letteratura, avesse bussato alla mia porta. Che, da allora, rimane aperta.
Parlando di Maraini, in “Il tempo tessuto di Dio”, riveli qualcosa di te, affiorano tuoi desideri e aspirazioni, soprattutto quel che ti rappresenta nell’opera di Maraini. Quale aspetto dell’opera di Maraini ritieni più rappresentativo dell’autrice e quale risonanza ha in te come lettrice?
Quella che chiamo prosa di poesia, che è prosa di realtà. E con questo intendo, non solo quello di cui parlo a lungo nel libro, ma quella capacità trasformatrice che la sua scrittura ha avuto in me, appunto, come lettrice. Se quella capacità trasformatrice riuscisse ancora ad ‘affettarmi’ – per usare il linguaggio spinoziano – a cambiarmi, a farmi passare da una impotenza (il non riuscire a dare voce alla scrittura libera) a un grado maggiore di potenza (imparare a esprimere il pensiero nel sentire), ecco, diventerebbe quello che Spinoza chiamava un incontro felice. Quando leggerete, o se assisterete a Camille, soffermatevi sulle parole di Rodin, su quelle di Camille stessa; leggete Manila nel Dialogo di una prostituta e un suo cliente; leggete e rileggete Veronica Franco: tutte le sensazioni provate ascoltando le parole di queste grandi, grandissime figure, non potranno che risuonare dentro di voi scuotendovi, e vi lasceranno ampliati di qualcosa d’insondabile, in più. La liberazione del vostro immaginario, nei sensi.
Barbara Polidori nel 2018 scriveva su la Repubblica online: “Dacia Maraini ritrae la Centocelle degli anni ‘70, in un fermento culturale di cui fu lei stessa uno dei motori scatenanti” e ora il tuo libro su di lei viene pubblicato da una neonata casa editrice di Centocelle. Cosa ne pensi di questa coincidenza?
Che è una coincidenza luminosa. Spero che Il ramo e la foglia edizioni possa diventare, a sua volta, uno dei motori scatenanti di un nuovo fenomeno culturale che da Centocelle investa… tutta Italia!
Oltre a Maraini cosa legge una filosofa?
Di letteratura?
Tutto quello che posso. Dipende dai momenti. Ultimamente da “La meravigliosa lampada di Paolo Lunare” di Cristò, a Kent Haruf, la trilogia della pianura, da Stoner di John Williams, a Coetzee, intercalandoli con Malamud e Saramago. In alcuni momenti torno a Kafka, Shakespeare, Yourcenar, Dickinson. Di notte, tanti vecchi Gialli Mondadori.
Nel panorama letterario italiano chi potrebbe essere considerato l’erede di Maraini?
Questo non posso proprio essere io a dirlo.
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Notizie » L’editore intervista l’autrice: Margherita Pascucci
Intervista [Autore] 27/05/2021 12:00:00