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Notizie » Anna Pambianchi: L’isola che non c’era

Recensione [Libri] 20/06/2021 12:00:00

Rammemorando, pur nella sua singolarità, gli altrove letterari che lo hanno preceduto, L’isola che non c’era è un racconto lungo che intreccia un immaginario devoto al paradosso. Descritta solida e intatta come un dente di cristallo… una spina nel fianco del mondo; al centro delle dicerie, in quanto esiste davvero, pur essendo incline a sprofondare negli abissi e poi a riaffiorare; narrata in un libro ormai perduto, l’isola possiede il motore della sua riapparizione proprio in quel dileguarsi e nell’oblio che ne segue. Dunque un’isola straniera ad ogni tempo e a ogni luogo e al contempo del tutto congeniale al secolo presente. Sarebbero sufficienti queste note iniziali a invogliare persino il lettore più riottoso a salire a bordo. Leo, il protagonista, decide di affrontare il viaggio verso l’isola dopo aver perduto ogni radicamento. Sulla sua storia l’autore fa gravare una misteriosa smemoratezza. Il lettore si chiede se sia un caso che a stento si faccia cenno alla famiglia e al luogo di nascita che affondano non appena affiorati. La vicenda sembra poi prendere corpo e definizione. Ma per chi legge è solo un rifiatare, una tregua momentanea. Altri interrogativi corrono tra le righe nell’impervio tentativo di dare un’identità al personaggio e alla sua vita che precede la scelta. Leo tradisce con noncuranza o è soltanto mosso dalla forza oscura di chi è stato tradito e che, pur senza consapevolezza, ne manifesta la dolente traccia? È un giovane che si limita a respingere le consuetudini convenzionali dei più? Un solitario sognatore? O un alieno che rifugge ogni genere di lotta?
A Leo tuttavia sono rimasti un’umile ingenuità e la scorta del sogno e con questo magro bagaglio abbandona il Continente: nudo navigante, che a vele spiegate si dirige verso l’isola di cui si favoleggia. Dopo l’approdo, Leo vive ogni incontro all’insegna di un inesausto desiderio di conoscenza: apprende così che gli isolani amano l’arte della scrittura e fin da bambini la esercitano perché tutto si regge sulla parola… per ogni parola c’è sempre un albero…. L’albero e la parola fanno il libro… ma per ogni libro dieci alberi saranno piantati. E ancora la parola scritta – afferma un isolano – vale incomparabilmente più di ogni altra cosa…
Gli abitanti dell’isola sembrano invece piuttosto sfuggenti rispetto agli interrogativi timidi eppur serrati di Leo. La parola esce faticosamente dalle bocche, frammentata, bisognosa di continui aggiustamenti, tesa alla sintesi estrema, come se ad essa si preferisse il silenzio. Si distingue in controtendenza il dottor Elwin che narra il tentativo generoso di realizzare nel Continente un contesto sovversivo attraverso il quale uscire dalla prigione del mondo… il concetto di vuoto più di ogni altro incarnava il fulcro attorno al quale ruotava spesso la nostra riflessione. Aggredire quel vuoto avrebbe significato colpire al cuore l’organismo oppressivo da cui dipendevamo tutti…
Aveva lavorato a una rivista in cui trovavano spazio autorevoli voci della cultura d’oltremanica oltre a una nutrita colonia di artisti internazionali, di poeti, di sperimentatori del linguaggio; rivista critica nei confronti del pensiero unico dominante…
Insomma una sorta di infrastruttura di senso capace di restituire speranza alla vita futura.
La cultura, lo studio, l’impegno sarebbero stati il fulcro di quell’atteso sovvertimento.
Il lettore si specchia nel dottor Elwin e nel suo disegno. Ma è solo questione di un attimo perché lo specchio rapidamente mostra fin troppo evidenti incrinature. Il dottor Elwin confessa che la sua timidezza - una sorta di afflizione dello spirito - nulla ha potuto contro il vuoto di cui era ostaggio assieme ad altri e contro l’oppressione di quel sistema. Dopo aver ammesso malinconicamente che quella rivista che tanto lo aveva impegnato era stata nella sostanza un’opera di fuga, difende la scelta sua e dei suoi collaboratori di dirigersi verso l’isola, scelta dettata dalla necessità, dal profondo turbamento, dal naufragio del sogno. E dunque sull’isola di sopra il dottor Elwin ha portato con sé la propria sconfitta – intuisce Leo. L’indole del dottore si fa più trasparente agli occhi del protagonista durante la perlustrazione del pozzo ove egli conserva zanne, corna e denti d’avorio e collezioni di farfalle dai colori smorti. Quando vengo quaggiù… non riesco nemmeno a pensare… se non all’infinita sterilità di ogni pensiero – riconosce il dottor Elwin. Leo osa interpellarlo riguardo alla continuazione del lavoro comune. Ma la risposta latita.
Come latitano le riposte del dottore sulle questioni cruciali: il potere sull’isola, la legge e la sua applicazione, la proprietà, il sentimento di una comune speranza. Elwin, per quanto desideroso di dar risposta alle aspettative di Leo, nel suo sofferto turbamento, riesce solo ad abbozzare approssimazioni vaghe ed enigmatiche ai brucianti interrogativi. Leo, esploratore impavido di una tanto lussureggiante foresta, riesce soltanto a concludere: …a me qui tutto sembra affondare. Eppure sente distintamente che la propria pena e quella del dottore sono contigue. Soffrono della medesima angustia dalla quale entrambi hanno cercato di allontanarsi. Si domanda se ci sia un rimedio a quel male. Immagina che la radice della sofferenza sia vigorosa se il dottor Elwin in tanti anni non è ancora riuscito a estirparla.
Il viaggio di Leo nella ricognizione allegorica ed esistenziale procede verso il necrolario, la casa delle gravide, la casamatta (oscuro e pressoché inaccessibile luogo di confine del pensiero). Una significativa rivelazione è ancora il dottor Elwin a porgergliela: …i miei colleghi… hanno ricomposto il libro che… occorreva a tutti i costi recuperare … hanno lavorato alacremente senza guida come sacerdoti di un verbo senza religione…il libro è il luogo di un sapere nascosto, la religione di un oblio…
Duramente incalzato da opposte visioni sul mistero dell’isola, Leo è chiamato a discernere quale verosimiglianza attribuire alle interpretazioni dei vari personaggi. Contare sul dottor Elwin che, pur sostenendo l’inesistenza di verità assolute, lo sollecita a rimanere nell’isola e nell’idea sperimentandole fino in fondo, oppure piegarsi agli ardenti ammonimenti di Aldina che gli suggerisce di non farsi abbagliare né condurre troppo in là e di fuggire perché l’isola è un’opera che divora, l’opera perfetta che non esiste? O ancora confidare nel lavoro certosino dei collaboratori del dottor Elwin che hanno ricomposto il libro/opera sull’isola come strumento essenziale di una realtà ritenuta conoscibile?
Ora l’isola sta per affrontare l’ennesimo inabissamento.
Leo, sotto il peso dell’inquietudine nutrita da interrogativi pressanti e irrisolti, si congeda dal lettore con una dolente folgorazione: nell’isola - ove alcuni esseri umani osano la conoscenza di sé stessi -…il libro non può mai aprirsi davvero… è un libro chiuso… che un giorno, forse,… l’isola restituirà di nuovo al suo oblio riemergendo dai mari. il sogno pare essersi consumato facendosi cenere. La sua umile ingenuità, ora alla prova del più denso dei significati, non è più nuda. Si è rivestita indossando l’enigma e la pietà assorbiti dall’esperienza delle vicende dei personaggi incontrati. Forse, maggiormente equipaggiato, potrebbe salpare di nuovo verso una nuova isola/idea. E forse il lettore con lui. Perché, pur lasciando sullo sfondo gli eventi della Storia, il racconto dipana le storie tormentose dei singoli, quelli che sul Continente ci vivono, quelli che sognano di abbandonarlo. E, dunque, l’isola appare come la transitoria zattera degli spiriti desideranti.

Al di là dei personaggi e della tessitura delle loro vicende, L’isola che non c’era ha il pregio di una scrittura da un lato sapientemente allusiva, e, dall’altro, capace di frangersi e ricomporsi in uno stile che alterna risacca e mulinello, singhiozzo e ala di vento. Per chi è scettico rispetto alle narrazioni cucite con il filo della certezza, L’isola che non c’era è un’opera che non lascia tregua al lettore cui chiede di mettersi a cimento in una sorta di stretto, dialettico, confronto con l’immaginario dell’autore.

Anna Pambianchi

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